02 Giu Repubblica in festa solo se c’è uguaglianza
In questo 2 giugno 2019, festa della Repubblica Italiana, pubblichiamo una riflessione di Adriano Patti, Magistrato e nostro volontario.
La giustizia è la prima delle virtù sociali,
così come la verità lo è dei sistemi di pensiero
(Rawls, Una teoria della giustizia)
Che cosa ha da dirci oggi, se ancora ha qualcosa da dirci, la ricorrenza della festa della Repubblica? E perché festeggiare?
Viviamo in un tempo in cui la storia, e quindi la memoria, non sono coltivate, anzi decisamente emarginate: sicché perdiamo tutti, o quasi, consapevolezza di realtà che spesso celebriamo (quando le celebriamo) come culti vuoti, liturgie senza vita. Così mi pare sia anche per la festa della Repubblica.
Oggi poi siamo più abituati a nominare lo Stato, o la Nazione, non la Repubblica.
Eppure come lo Stato, che è la dimensione giuridica e istituzionale della nostra convivenza civile, e come la Nazione quella culturale, storica e artistica, così la Repubblica è quella civile e sociale: diverse prospettive di un’unica realtà sostanziale. E la Repubblica è proprio quella che dà abito e soprattutto corpo al nostro essere cittadini di questo Paese.
In questa prospettiva essa, nella forma democratica e nella sostanza fondata sul lavoro (art. 1, primo comma Cost.), dice (o dovrebbe dire) chi è l’Italia e quindi chi siamo (o dovremmo essere) noi.
Allora, per dare contenuto di consapevolezza e di responsabilità a questa festa, è bene ricordare quali siano i compiti davvero essenziali della (nostra) Repubblica: il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, insieme con la richiesta di adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2 Cost.); l’eliminazione degli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3, secondo comma Cost.), che inveri quel principio di uguaglianza formale, secondo cui “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge” (art. 3, primo comma Cost.); il riconoscimento a tutti i cittadini del diritto al lavoro e la promozione delle condizioni che rendano effettivo questo diritto (art. 4, primo comma Cost.).
E questo è il diritto che, concretamente assicurato, rende possibile l’esercizio di tutti gli altri, perché (come non si stanca di ammonire papa Francesco) il lavoro riguarda direttamente la persona, la sua vita, la sua libertà: essendo il valore primario del lavoro il bene della persona umana, perché la realizza come tale, con le sue attitudini e le sue capacità, promuovendone soprattutto la dignità (G. Costa, P. Foglizzo, Il lavoro è dignità. Le parole di papa Francesco, 49).
Ma questi compiti, tanto impegnativi quanto fondativi del nostro tessuto politico, economico e sociale, esigono una declinazione secondo il principio di uguaglianza. Quanto la nostra società è lontana dal perseguirlo! Perché essa è fondata su un modello che alimenta e incrementa in modo intollerabile la disuguaglianza, in costante crescita esponenziale.
Il rapporto 2019 di Oxfam (Ong britannica che studia l’economia sociale), che già aveva rilevato nel 2017 la detenzione dall’1% della popolazione mondiale dell’82% della ricchezza globale e un incremento annuale di 762 miliardi USD della sua ricchezza, pari a 7 volte l’ammontare delle risorse necessarie a far uscire dalla povertà 789 milioni di persone, con una crescita media annuale (nel periodo 2006 – 2015) del reddito dei miliardari in misura del 13%, a fronte del 2% del reddito dei lavoratori (Oxfam International, Ricompensare il lavoro, non la ricchezza. Rapporto 2018, https://www.oxfamitalia.org/wp-content/oploads/2018/01/Rapporto-Davos-2018), segnala come la forbice della disuguaglianza continui ad allargarsi: nel 2018 essendo aumentata la ricchezza in mano a 1.900 “Paperoni” nel mondo di oltre 900miliardi USD (+ 12%), pari a 2,5 miliardi USD al giorno, a fronte della riduzione della metà della popolazione mondiale più povera dell’11%.
Né l’Italia si sottrae a questa divaricazione crescente. Nell’anno 2017, è stata così rilevata la detenzione, da parte del 20% più ricco degli italiani, di oltre il 66% della ricchezza nazionale netta. E i principali fattori di disuguaglianza sono stati individuati nel declino del potere di contrattazione dei lavoratori a bassa retribuzione e nel correlativo aumento di un tale potere dei percettori di redditi alti e titolari di ricchezza (U. Guidolin, A. Ratti, “La grande disuguaglianza”, Infografica, in Aggiornamenti sociali, 2018, 243).
E tuttavia, non si tratta soltanto di ripartire in modo più equo le risorse: perché prima di porre come obiettivo questo pur doveroso compito di redistribuzione (o meglio ancora: di restituzione), occorre il riconoscimentoa ciascuno di una pari dignità umana, essa sola fondamento della priorità della giustizia (B. Giovanola, Giustizia sociale. Eguaglianza e rispetto nelle società diseguali, 50).
La centralità dell’eguaglianza si qualifica nel riconoscimento dell’eguale valore umano di ogni persona (sicché non ci sono vite che valgano più di altre, né tanto meno che valgano nulla), ma anche per il suo valore politico, che si sostanzia nell’ideale di una eguale cittadinanza, nella sua modulazione di eguaglianza democratica, in funzione di un’eguaglianza come relazione sociale (B. Giovanola, op. cit., 111).
Mi piace qui ricordare che anche l’Unione Europea, nel rispetto dei cui vincoli è esercitata la postestà legislativa dello Stato e delle Regioni (art. 117, primo comma Cost.), “si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze”(art. 2 Tratt. Lisbona 13 dicembre 2007).
Come leggere allora l’esperienza di San Marcellino nella prospettiva di una consapevolezza di essere tutti noi cittadini di questa Repubblica, così bella nei principi fissati dalla lungimiranza dei Padri costituenti, ma tanto deturpata dalla miserevole condizione politica, economica e sociale di oggi? E come questa auspicata consapevolezza interpella la nostra responsabilità?
Quando dico tutti noi, riferendomi all’esperienza che viviamo insieme nell’associazione di San Marcellino, intendo proprio ciascuno: senza distinzione di ruoli, di capacità, di estrazione culturale, di posizione economica e sociale; soltanto diversi per le storie, i percorsi più o meno accidentati, le opportunità colte o mancate, i successi e i fallimenti che abbiamo attraversato e che fanno la ricchezza del nostro convergere verso un obiettivo comune, di solidarietà umana e di condivisa aspirazione ad una società più giusta e accogliente.
Ebbene, se dovessi offrire una chiave di lettura di questa esperienza, direi che è: relazione di ospitalità. Sì, perché essa è reciprocità nell’accoglienza e nella provocazione al cambiamento, esprimendo la parola ospite, nella straordinarietà di una declinazione al tempo stesso attiva e passiva, sia l’atteggiamento di chi accoglie, sia di chi è accolto. E l’esperienza, ora di essere accolti ora di accogliere, è davvero di tutti, sempre che si faccia un po’ di attenzione: a dire dell’essenzialità (non tanto di chifa che cosa, ma) di un riconoscimento nell’unico movimento dell’andarsi incontro.
Proprio da questa reciprocità, che nasce ed è coltivata nella scoperta della dignità del volto dell’altro, e quindi della sua persona, è possibile ricercare insieme la giustizia.
È su questa strada allora che le tante esperienze, anche piccole (e sono proprio tante), di solidarietà e di impegno gratuito in favore della persona, vissute da uomini e donne del nostro Paese, devono proporsi di camminare insieme, per costituire rete virtuosa, promotrice di un’istanza, forte e credibile, di cambiamento culturale, sociale, politico, anche in termini di rappresentanza decisionale nella vita del Paese. Perché solo con l’impegno di tutti, di rendersi cittadini consapevoli, è possibile costruire una società diversa, aperta e solidale, meno diseguale siccome fondata su uno “sviluppo economico”che “deve avere un volto umano” (ancora le parole di papa Francesco, in G. Costa, P. Foglizzo, op. cit., 134). E che finalmente sia indirizzato da una classe politica, che non balbetti più slogans inconcludenti e divisivi, ma che sappia leggere i segni dei tempi, ascoltando i bisogni veri delle persone, in una programmazione lungimirante, non improvvisata alla ricerca di un consenso immediato (per conquistare o mantenere un potere fine a se stesso), appassionata del bene della polis.
Celebrare la festa della Repubblica vuol anche dire custodire la memoria di chi ha concorso a costruirla davvero, assumendone l’eredità delle parole: “senza che diventi sociale, la democrazia non può essere neppure umana, finalizzata all’uomo cioè con tutte le sue risorse e le sue esigenze. Se essa resta strettamente, angustamente politica, questo raccordo con l’uomo … diventa estremamente difficile e, ove pur risultasse stabilito, si rivelerebbe effimero e poco costruttivo” (A. Moro, discorso all’Assemblea Costituente del 13 marzo 1947).
Sia allora questo, in un momento delicato nella vita del nostro Paese per tanti aspetti, e non solo economici, il nostro impegno quotidiano di testimonianza fedele ai valori della Repubblica, costituzionale ed europea, sviluppando uno spirito di appartenenza onesta e leale ad essa, finalmente sentita come la nostra casa.