05 Apr Comprendere la complessità
Il 27 gennaio scorso, in occasione della Giornata della Memoria, San Marcellino ha proposto un insieme di preoccupazioni e spunti di riflessione dal titolo Per non perdere noi stessi, sui quali oggi torniamo per approfondire il tema della comprensione della complessità.
Comprendere la complessità andando oltre le generalizzazioni, attraverso l’informazione, l’attenzione e l’empatia.
Di Giovanni Moro
È difficile negare che viviamo in un’epoca di incertezza, che riguarda tutti gli aspetti della vita individuale e sociale e che non è solo un sentimento, ma una condizione materiale che investe – seppure con gradi diversi – la maggioranza dei cittadini e che dobbiamo imparare a condividere con il resto del mondo, il quale di certezze ne ha sempre avute di meno della vecchia Europa.
Penso che una tentazione da evitare o da contrastare sia quella di sfuggire al confronto con la complessità della realtà, scegliendo le scorciatoie di generalizzazioni indebite, ma anche di rappresentazioni caricaturali, costruite su una piccola base di realtà e una enorme quantità di pregiudizi, paure e sogni. Misurarsi con la complessità è più faticoso che ripetere luoghi comuni o accettare le rappresentazioni offerte dai media e dalle classi dirigenti; ma è un compito non eludibile che spetta a tutti.
Un caso emblematico di questa fuga dalla complessità è quello della immigrazione. Ci sono tre aspetti del fenomeno migratorio che possono essere richiamati qui per rendere evidente quanto la realtà sia differente dalle versioni ufficiali o di comodo che ci vengono offerte.
Il primo aspetto è la rappresentazione della immigrazione come un tutto unico, omogeneo, di cui i richiedenti asilo e i rifugiati sono lo specchio fedele. In realtà, anziché di immigrazione bisognerebbe cominciare a parlare di immigrati. Si tratta, infatti, di un universo plurale di individui, famiglie e comunità che esprimono il massimo della diversità e che non possono in alcun modo essere trattati come un insieme omogeneo, e tantomeno essere rappresentati senza scarti dalle persone che sfidano il mare per venire da noi. Stiamo parlando infatti di circa 7 milioni di persone che sono comunitarie ed extracomunitarie; che vengono da decine di paesi diversi; che professano religioni differenti (in maggioranza cristiani, comunque); che sono qui per lavoro, per ricongiungimento familiare, per nascita, per transito, per studio, per problemi di salute; che sono giovani (soprattutto) e anziani, donne e uomini, che arrivano da soli o in gruppi familiari; che hanno permessi di soggiorno di breve o lungo periodo, oppure hanno permessi scaduti o sono semplicemente irregolari. Di questo insieme plurale i rifugiati e i richiedenti asilo sono solo 200.000 circa, meno del 3% del totale.
Un secondo aspetto ha a che fare con la idea che ci sia una chiara distinzione tra “chi sta dentro” e “chi sta fuori” dalla cittadinanza italiana, cosicché si possa dare per scontato che gli immigrati sono coloro che “stanno fuori”. Tra le persone di origine straniera che vivono in Italia, però, più di un milione e trecentomila hanno acquisito nel corso degli ultimi anni la cittadinanza italiana, anche in mancanza della riforma che il parlamento, per ragioni elettorali, non ha voluto approvare. Ma, anche guardando solo a coloro che non hanno lo status legale di cittadini e che risiedono regolarmente in Italia (circa 5 milioni), si deve registrare ad esempio che gli stranieri, quando in possesso di un permesso di soggiorno di lungo periodo, hanno in pratica gli stessi diritti sociali degli italiani; che la maggioranza di essi è residente da più di vent’anni; che un quarto di essi vive in una casa di proprietà; che essi rappresentano circa il 10% della forza lavoro occupata; che mezzo milione di imprese private sono di proprietà di stranieri; che gli immigrati contribuiscono con circa 8 miliardi di euro l’anno al bilancio dello stato pagando le tasse e i contributi previdenziali, ricevendo peraltro in termini di servizi e politiche pubbliche all’incirca la metà di questa cifra; che, pur in mancanza del diritto di voto (questo non vale, almeno parzialmente, per i cittadini comunitari), essi sono presenti nei sindacati (circa un milione di lavoratori) e hanno dato vita a un tessuto associativo rilevante anche se pressoché sconosciuto.
Tutto questo non significa che le cose vadano bene e che fenomeni di discriminazione, sfruttamento e stigmatizzazione non siano all’ordine del giorno; ma ciò non autorizza a classificare le persone di origine straniera come quelle che, per definizione, stanno fuori della cittadinanza italiana. Se, infatti, si guarda la cittadinanza in termini non soltanto legali, ma come un meccanismo di appartenenza e inclusione che si basa anche su uno status sociale, su diritti e doveri e su forme di partecipazione alla vita pubblica, si possono identificare molte “porte” della cittadinanza dalle quali le persone di origine straniera sono già entrate.
Un terzo aspetto da considerare con attenzione ha invece a che fare con noi; o meglio con la presunzione che la cittadinanza italiana sia un oggetto ben formato, solido, stabile e che le persone di origine straniera possano soltanto scegliere di entrarvi se noi lo decidiamo; e che per farlo debbano conformarsi ai valori, alle norme, ai modelli culturali, alla eredità storica, alla lingua e, perché no?, anche alla religione a cui essa si riferisce. Se si evita di cadere in questo tranello, invece, ci si può facilmente accorgere, non solo che la cittadinanza italiana è tutt’altro che un meccanismo ben funzionante, ma soprattutto che la presenza di persone di origine straniera lo ha già messo in discussione, innescando un processo di cambiamento che non può essere fermato.
Vediamo qualcuno dei molti fenomeni che mettono in discussione la cittadinanza italiana in relazione alla presenza di persone di origine straniera: la esistenza di più di mezzo milione di bambini e ragazzi nati in Italia da genitori stranieri e che vivono in una sorta di limbo impone di riconsiderare i tradizionali principi su cui la cittadinanza italiana si è basata (il famoso ius sanguinis); la pluralità di confessioni religiose ormai presenti in Italia mette in questione il legame tra cattolicesimo e identità italiana; elementi fondamentali di identità come il cibo vengono modificati da culture materiali e tradizioni culinarie differenti; l’accesso delle persone di origine straniera ai diritti sociali (compresa la istruzione anche per i bambini figli di immigrati irregolari) e il rilievo assunto dai diritti umani falsificano il legame tra l’essere cittadini e la titolarità esclusiva di diritti; il mancato accesso della maggior parte degli stranieri all’elettorato, la discriminazione a favore degli immigrati extracomunitari che invece possono votare nelle elezioni amministrative e soprattutto il disconoscimento del legame tra doveri fiscali e diritto alla rappresentanza, rendono la situazione attuale insostenibile, almeno nel medio e lungo termine.
Come si vede, il quadro è molto più complesso e articolato di quanto ci si voglia far credere. Accettare le generalizzazioni può essere confortante. In ogni caso allontana dalla realtà. E fuggire dalla realtà non è mai una soluzione. Anzi, in questo come in molti altri casi, rischia di enfatizzare i rischi e non vedere le opportunità.
Giovanni Moro è un sociologo politico e delle organizzazioni, svolge attività di ricerca, formazione, dialogo culturale e consulenza sulla cittadinanza e su temi ad essa connessi, quali l’attivismo civico nelle politiche pubbliche, le nuove forme di governance e la responsabilità d’impresa. Insegna Sociologia politica alla Facoltà di Scienze sociali dell’Università Gregoriana di Roma. Per approfondire il suo curriculum e l’elenco completo delle pubblicazioni clicca qui.
Comprendere la complessità è la terza di un ciclo di riflessioni che proseguiranno nelle prossime settimane. Eccone il filo conduttore.
Portare argomenti, affrontando temi sociali e pubblici riconoscendo la parzialità delle nostre motivazioni, opinioni o percezioni personali.
Contrastare la nostra ignoranza, concedendoci il tempo di conoscere e far conoscere i temi che ci stanno a cuore.
Prestare attenzione ai contenuti, riconoscendo le forme di mistificazione che possono nascondersi dietro una efficace abilità di comunicazione.
Comprendere la complessità andando oltre le generalizzazioni, attraverso l’informazione, l’attenzione e l’empatia.
Non confondere la filantropia con il riconoscimento dei diritti, tenendo ben distinto il sentimento di solidarietà dagli strumenti necessari a ottemperare ai Principi costituzionali.
Non tirare nel mucchio. A partire dai discorsi e dai facili bersagli che affollano ogni canale di comunicazione, siamo chiamati a contrastare una tendenza culturale che oggi rappresenta il terreno sempre più fertile per forme di violenza che vanno ben al di là delle parole.