Accoglienza
Chiunque abbia provato a fare esperienza concreta della parola “accoglienza” si é certamente trovato nella situazione paradossale di essere stato percepito poco accogliente, poco capito o, ancora, avere avuto la netta sensazione che l’altro non avesse compreso nulla del suo modo di essere accogliente. La parola “accoglienza”, tanto usata nei servizi alla persona, rivela nei suoi concreti risvolti ciò che l’antico adagio da sempre ci ricorda: “tra il dire e il fare c’é di mezzo il mare”.
L’adagio sottolinea la differenza tra teoria e prassi, ma va oltre, invita a riflettere su questa differenza per poter imparare qualcosa. Quello che certamente l’esperienza di San Marcellino ha insegnato é che, nonostante le nostre migliori intenzioni e i nostri migliori buoni propositi, incontrare qualcuno è sempre un’attività che non possiamo pianificare completamente, perché l’incontro con l’altro, in particolare l’altro sofferente, ferito, sviluppa una componente emotiva che spesso confonde, smarrisce, é di difficile comprensione. Questo ci porta seriamente a prendere in considerazione che “fare accoglienza” ci pone su un piano ambivalente e paradossale, in quanto la componente emotiva spinge a giocarci su un piano sia di accettazione che di rifiuto dell’altro, reciprocamente, e questo vale anche per il nostro interlocutore. È importante recuperare, sul piano razionale e organizzativo, cosa deve essere accettato e cosa deve essere rifiutato. Occorre una strategia che ci consenta, per quanto possibile, di orientarci nell’incontro con l’altro evitando di considerare l’accoglienza in modo totalizzante, negando cioè la componente emotiva, negando l’uomo.
(passi tratti da De Luise, D. e Gagliardi, A., “L’Associazione San Marcellino, Genova”, in De Luise, D., (a cura di) Operare con le persone senza dimora, FrancoAngeli, Milano, 2005, p.25).