Il nostro metodo

Metodo dell'Associazione San Marcellino Onlus, Genova

Accoglienza, gradualità, riconoscimento delle differenze.

 

Dopo diversi anni di lavoro e riflessione possiamo dire che essere in condizione di senza dimora è il risultato di una serie di fattori (per ognuno diversi), che hanno portato le persone a una situazione di grossa conflittualità e alla conseguente impossibilità di avere una propria situazione sociale e affettiva. Le problematiche emergenti, sono diverse: la casa, il lavoro, la salute, l’isolamento sociale, l’abbandono.

Accanto all’offerta dei Servizi si è andato quindi affiancando il tentativo di organizzare interventi che consentano alle persone di rileggere la propria esperienza cercando così di aprire per ognuno una possibilità di dialogo e di riflessione personale.

Questo dialogo mira ad offrire alla persona…

 

la possibilità di esprimere le proprie capacità, paure, desideri, affinché possa trovare la forza di “ricomporsi” e progettarsi verso la propria migliore autonomia possibile. Il modello che segue è conseguenza dell’esperienza e della riflessione che, fin dal 1945, le diverse persone che si sono avvicendate a “San Marcellino” hanno fatto. Non si tratta di un percorso cosiddetto “a gradini” che prevede per tutti la stessa sequenza di passaggi, ma di un metodo centrato sulla persona che, nei limiti degli strumenti in nostro possesso, cerca di progettare insieme al diretto interessato un percorso adatto a lui e ai suoi, e nostri, limiti. Nel corso degli anni la riflessione ha indirizzato verso lo sviluppo e la conoscenza di alcuni concetti che guidano quest’azione. Questi concetti possono essere riassunti in: accoglienza, gradualità, riconoscimento delle differenze.

Accoglienza

 

Chiunque abbia provato a fare esperienza concreta della parola “accoglienza” si é certamente trovato nella situazione paradossale di essere stato percepito poco accogliente, poco capito o, ancora, avere avuto la netta sensazione che l’altro non avesse compreso nulla del suo modo di essere accogliente. La parola “accoglienza”, tanto usata nei servizi alla persona, rivela nei suoi concreti risvolti ciò che l’antico adagio da sempre ci ricorda: “tra il dire e il fare c’é di mezzo il mare”.

L’adagio sottolinea la differenza tra teoria e prassi, ma va oltre, invita a riflettere su questa differenza per poter imparare qualcosa. Quello che certamente l’esperienza di San Marcellino ha insegnato é che, nonostante le nostre migliori intenzioni e i nostri migliori buoni propositi, incontrare qualcuno è sempre un’attività che non possiamo pianificare completamente, perché l’incontro con l’altro, in particolare l’altro sofferente, ferito, sviluppa una componente emotiva che spesso confonde, smarrisce, é di difficile comprensione. Questo ci porta seriamente a prendere in considerazione che “fare accoglienza” ci pone su un piano ambivalente e paradossale, in quanto la componente emotiva spinge a giocarci su un piano sia di accettazione che di rifiuto dell’altro, reciprocamente, e questo vale anche per il nostro interlocutore. È importante recuperare, sul piano razionale e organizzativo, cosa deve essere accettato e cosa deve essere rifiutato. Occorre una strategia che ci consenta, per quanto possibile, di orientarci nell’incontro con l’altro evitando di considerare l’accoglienza in modo totalizzante, negando cioè la componente emotiva, negando l’uomo.

(passi tratti da De Luise, D. e Gagliardi, A., “L’Associazione San Marcellino, Genova”, in De Luise, D., (a cura di) Operare con le persone senza dimora, FrancoAngeli, Milano, 2005, p.25).

Gradualità

 

Promuovere la dignità vuol dire realizzare un’operazione che spezzi la complicità della perdita d’identità, della perdita di riconoscimento.
Quello che implica un riconoscimento è uno sguardo che porta a preoccuparsi dell’altro come individuo che condivide la dimensione umana. È uno sguardo che prende in considerazione l’opportunità di entrare in relazione con una storia, una memoria, all’inizio difficile da interpellare e far emergere, perché ricca di dolore, traumi, paure.
Ci vuole tempo e spazio, bisogna costruire un’esperienza condivisa e non bisogna avere fretta. L’altro ha bisogno di maturare fiducia nei confronti di chi si occupa di lui e noi altrettanto. Ma per conoscere, riconoscere, abbiamo bisogno di contestualizzare ciò che che si vive. È attraverso la capacità di contestualizzare che si attribuisce significato e, di conseguenza, si impara a conoscere.
Dobbiamo pertanto trovare e dare tempo affinché sia possibile riaprire quel conflitto assopito tra desiderio e possibilità. Costruire legami significativi con una persona sofferente, vuol dire compromettersi con le mancanze, il dolore, la privazione e costruire, con gradualità, un sistema che restituisca l’opportunità di vivere dignitosamente anche dentro una cornice assistenziale che non si può escludere a priori.

(passi tratti da De Luise, D. e Gagliardi, A., “L’Associazione San Marcellino, Genova”, in De Luise, D., (a cura di) Operare con le persone senza dimora, FrancoAngeli, Milano, 2005, p.27-28).

Riconoscimento delle differenze

 

Fin qui si è detto che bisogna accogliere con gradualità e simultaneamente imparare a riconoscere le differenze che l’altro porta. Fare questo vuol dire ricercare il limite di cui l’altro, come ognuno di noi, è portatore e di cui spesso non è consapevole, senza farlo sentire un diverso, un uomo di serie inferiore. Per poter accedere a questa delicatissima dimensione, dobbiamo trovare il modo di costruire un linguaggio nuovo che permetta di agire sulla consapevolezza di questo limite e, soprattutto, sull’opportunità di riconoscere questo limite.
Tale linguaggio è da costruire per ogni persona, non ci sono scorciatoie, per ogni incontro personale l’organizzazione, attraverso i suoi operatori, deve sviluppare un senso condiviso; questo richiede attenzione, precisione e delicatezza. Condividere un senso non vuol dire condividere degli obiettivi, ma, piuttosto, definire una strada, affinché gli obiettivi possano emergere, prima in forma di desiderio, poi in forma progettuale e concreta. Questo è quello che chiamiamo “accompagnamento”. Le persone in difficoltà insegnano qualcosa: ogni persona è una persona che ha diverse abilità e ognuna deve trovare la possibilità di esprimersi. Per questo si parla di linguaggio, perché ognuno possa avere la possibilità di essere compreso su ciò che è alla sua portata.
Questa è una cosa difficile da mettere in pratica, che chiama alla fatica di non rinunciare mai alla possibilità di comunicare quella che è la nostra soggettività, quella che è la differenza che ognuno portanza, però non può rappresentare la perdita dei diritti per chi vi è costretto.

(passi tratti da De Luise, D. e Gagliardi, A., “L’Associazione San Marcellino, Genova”, in De Luise, D., (a cura di) Operare con le persone senza dimora, FrancoAngeli, Milano, 2005, p. 30).

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