15 Giu Migranti e fiammiferi
In uno speciale TG1 di qualche anno fa, Liliana Segre, ci propone questo pensiero:
“Per far sì che l’opinione pubblica diventi indifferente e segua il capo, ci vuole un lavoro. Cioè non è una cosa che si fa in un attimo, che il capo si alza una mattina e decide di perseguitare gli ebrei. O, o, o. No. È un lavoro profondo sulla gente. È un lavoro profondo che di solito comincia con la presa in giro di queste persone. La presa in giro non ironica, la presa in giro amara, pesante sui difetti fisici o sulle caratteristiche fisiche che possono diventare degradate da un abile disegnatore. E così si comincia a metterli in ridicolo, poi si fanno dei piccoli passi avanti, si parla male, si comincia …. Io mi ricordo, per esempio, il Corriere della Sera parlava che c’era stato un furto, uno scippo, non si chiamava scippo allora, un furtarello e mi ricordo che …: ‘il signor tal dei tali è ebreo’. Mi ricordo che in casa mia dicevano: ‘ma perché non scrivono che l’altro ladro era cattolico?’ Cioè, cosa c’entra? Ognuno può avere la religione che vuole. E quindi è una … è una … una specie di piccolo fuoco che si accende, man mano, piano piano divampa fino ad arrivare ai forni crematori. Nell’indifferenza generale. Ma si parte da … da un fiammifero.”
Riproponiamo queste parole a noi stessi e a voi, in questi giorni difficili in cui ognuno di noi, prima di tutto come persona, poi come cittadino, nei differenti ruoli che quotidianamente ci ritroviamo a occupare, è sollecitato e chiamato a riflettere sulle storie e le vite di tanti altri racchiuse in quel contenitore semantico e polisemico che è divenuta la parola “migranti”.
Pure si tratta di persone, quindi, di noi.
Non dei privilegi di cui godiamo o no, di quello che possediamo o meno, delle cose che abbiamo o no, ma di noi.
Noi che somiglianti e diversi siamo.
Noi che senza l’altro non siamo.
Un fiammifero.
Ecco uno tra i tanti possibili contributi a una riflessione personale che ci aiuti a non chiamarci fuori, a non delegare ad altri e a pensare con la nostra testa, perché altrimenti sarebbe come tacere. E tacere oggi ci rende responsabili di quello che accadrà domani.
p. Nicola Gay si